Cadere da cavallo non è solo una questione di lividi: ecco perché i traumi cranici sono reali, sottovalutati e spesso invisibili.
Hai battuto la testa? Non è “solo una botta”. Se giocassi a rugby o facessi boxe, un colpo in testa manderebbe tutti in allarme. Ma cadere da cavallo e rialzarsi subito dopo, vuol dire rimontare in sella con una diagnosi che equivale a una pacca sulla spalla e un bel “dai, risali che non è niente”. Eppure, l’equitazione è uno degli sport con più traumi cranici, e nessuno lo dice.
Paradossale? Forse. Ma vero. E oggi ne parliamo senza giri di parole.
Il grande rimosso: il trauma cranico in sella
Cavalcare è poetico, liberatorio, potente. Ma anche fisico, instabile e pieno di incognite. In altre parole: potenzialmente pericoloso. Solo che la narrazione comune lo ignora, specialmente quando si tratta della testa.
Eppure, i dati parlano chiaro: oltre il 20% delle lesioni cerebrali legate allo sport avviene in ambito equestre. Supera sport considerati “estremi” e, udite udite, lo dice anche la letteratura scientifica. Ma nella quotidianità del maneggio, di neurologia non si parla quasi mai. Troppo complicata. Troppo invisibile.
Eppure, una commozione cerebrale non ha bisogno di sangue o caschi rotti per esistere. Basta un sobbalzo, o una disarcionata. Un movimento brusco che fa “ballare” il cervello dentro il cranio. Il risultato? Sintomi post-trauma che spesso arrivano ore dopo: mal di testa, nausea, irritabilità, problemi di memoria. Ma nessuno li collega alla caduta di due giorni prima.
Ma se cado, non me ne accorgo?
Non sempre. E qui sta il problema. I traumi cerebrali non fanno rumore. Il cavaliere cade, magari si rialza subito, magari ride pure. Ma poi, a casa, comincia a non ricordarsi dove ha messo le chiavi. Ha vertigini. “Sarà la stanchezza”, si dice. Peccato che il cervello stia cercando di chiedere aiuto.
Nel frattempo, il protocollo di maneggio è questo: “Se stai in piedi, puoi rimontare”. E così si ignora il rischio di un secondo impatto, che può essere devastante se il cervello è ancora in fase di guarigione.
E le donne? Peggio ancora.
Qui arriva il colpo di scena: le donne subiscono traumi cerebrali più frequentemente e in forma più grave degli uomini. Colpa – o merito – della fisiologia. Il collo femminile è meno robusto, il cervello si muove di più in caso di impatto, e gli ormoni influenzano tempi e modi del recupero.
Inoltre, il ciclo mestruale può modificare la risposta del corpo al trauma, rallentando il ritorno alla normalità. Ma quanti medici sportivi sanno tutto questo? Pochi. E intanto, troppe amazzoni tornano in sella senza sapere di avere il cervello ancora in sciopero.
I caschi aiutano? Sì. Ma non abbastanza.
Casco e sicurezza in sella vanno sempre a braccetto. Ma attenzione: anche il miglior casco sul mercato non impedisce la commozione cerebrale. Protegge il cranio da fratture, certo, ma il cervello resta libero di “rimbalzare” all’interno. Pensare che il casco sia un lasciapassare per l’invincibilità è il primo errore.
La prevenzione delle cadute da cavallo non si gioca solo sul piano fisico, ma anche culturale. Serve una mentalità che riconosca il trauma, lo rispetti e dia spazio al recupero. Anche se fuori non si vede nulla.
Testa alta, ma non testardi
Chi ama i cavalli non vuole sentirsi dire di smettere. E nessuno qui lo suggerisce. Ma un cavaliere che conosce i rischi e li affronta con lucidità è anche uno che dura di più nel tempo. Che sa fermarsi un giro per poter tornare in sella davvero, e non per abitudine.
La domanda finale è questa: se cadere è normale, perché ignorare le conseguenze lo è ancora di più?