Il turismo equestre non è solo passeggiate a cavallo: può salvare interi territori rurali, ma va fatto con testa, etica e competenza. Ecco perché non è per tutti.
Il turismo a cavallo è molto più di una passeggiata (e non sempre in senso buono). C’è chi monta a cavallo in infradito, giusto per una foto al tramonto, e chi lo fa per vivere un pezzo di territorio che altrimenti non conoscerebbe mai. Ma dietro la moda delle passeggiate a cavallo c’è un settore che, se gestito bene, può cambiare davvero la sorte di intere comunità.
Stiamo parlando del turismo equestre, una forma di turismo rurale e sostenibile che, tra strade sterrate, sentieri nei boschi e silenzi interrotti solo dagli zoccoli, può diventare la chiave per ridare vita a territori dimenticati.
Il cavallo come leva economica per i territori marginali
Il turismo equestre, quando non è solo un’attrazione per turisti distratti, genera valore. E non parliamo solo di maneggi o scuole di equitazione: l’indotto coinvolge agriturismi, guide ambientali, produttori locali, artigiani, veterinari e maniscalchi.
Un cavallo ben tenuto non è mai “solo” un cavallo. È un moltiplicatore economico: Si stima, in vari contesti europei, che il turismo equestre produca ricadute economiche locali significative, spesso superiori all’investimento iniziale.
In zone come la Maremma toscana, l’entroterra sardo, l’Umbria collinare o il Molise agricolo, il cavallo non è folklore, è infrastruttura. È turismo sostenibile allo stato puro: lento, radicato, autentico.
Ma allora perché vediamo gente di ogni sorta su cavalli esausti?
Il problema nasce quando il turismo a cavallo si trasforma in “esperienza da catalogo”, senza regole e senza rispetto.
Vediamo sempre più spesso pacchetti turistici che promettono “un’ora a cavallo per tutti”, senza chiedere nulla sulla preparazione del cavaliere. Il risultato? Cavalli sovraccarichi, non allenati per lavorare con neofiti, e pseudo-guide che guidano gruppi di dieci turisti in pantaloncini su spiagge o sentieri di montagna.
E qui va detto forte:
Il turismo equestre non è per tutti.
Non è un’attrazione turistica, e non dovrebbe essere venduto come tale.
Educazione e responsabilità: le basi di un vero turismo equestre
Perché il turismo a cavallo funzioni davvero, serve:
- Valutazione seria delle capacità del turista
- Istruttori formati e certificati
- Cavalli adatti, sani e ben gestiti
- Percorsi scelti con attenzione
- E soprattutto, una cultura del rispetto verso l’animale e l’ambiente.
Il cavallo non è un “mezzo di trasporto alternativo”: è un essere vivente, sensibile e collaborativo.
Senza questa consapevolezza, il turismo equestre perde la sua anima.
Esempi virtuosi: quando il cavallo racconta il territorio
In Spagna, città come Jerez de la Frontera fanno del cavallo un elemento identitario, un simbolo culturale. La Real Escuela Andaluza del Arte Ecuestre (REAAE) non organizza solo spettacoli: costruisce una narrazione collettiva, riconosciuta anche a livello europeo.
In Portogallo, Golegã è nota come la “città del cavallo”: lì, il turismo rurale ed equestre non è una nicchia, è parte della politica locale.
E in Italia? Alcune esperienze pionieristiche esistono, ma manca ancora una visione nazionale integrata, che metta insieme:
- agricoltura
- cultura
- mobilità lenta
- valorizzazione ambientale
Il cavallo può diventare il trait d’union tra tutto questo, ma servono regole chiare, formazione e sinergie territoriali.
Chi ci guadagna davvero?
Quando il turismo equestre è fatto con testa e cuore, vincono tutti:
- Il cavallo, perché lavora in modo sano e rispettoso
- Il territorio, che racconta la propria identità senza filtri
- Il turista, che porta a casa un’esperienza vera
Ma serve una decisione:
Vogliamo un turismo che lascia orme o solo impronte?


